giovedì 17 luglio 2014

GIU' LE MANI - SE NON ORA, QUANDO?

Articolo scritto nella primavera del 2011





Penso che in molti ricordino questa foto, risalente alla primavera del 2011. Ai tempi, lessi in giro per il web un articolo che titolava “Se non ora… mai! Giù le mani da Levi”. Ricordo di aver sorriso, non per l’articolo in sé, criticava il fatto che si scendesse in piazza portando uno slogan per cui, secondo l’autore, si creava un parallelismo ingiusto tra i partigiani antiberlusconiani e i partigiani di Primo Levi. Sorrisi, perché quel “Giù le mani” era esattamente ciò che avevo pensato quando vidi sbandierato nelle piazze il titolo dell’opera che qualche anno fa mi ha fulminata, tanto da consacrarne l’autore come punto di riferimento del cuore, per sempre. Non si tratta certo di un romanzo tra i più conosciuti, e quando ho sentito sulla bocca di tutti qualcosa che, nel suo significato intrinseco, apparteneva a me e a pochi altri, istintivamente sono quasi saltata sulla sedia e ho pensato: «Ma che vogliono questi? Giù le mani!».

Lasciando da parte questi pensieri che sono un po’ egoistici e infantili, perché è vero che le parole appartengono a chi le ha scritte, ma una volta lanciate sono di tutti e ciascuno ne fa ciò che vuole, vorrei fare un modestissimo tentativo di restituire la frase al suo contesto originario.

“Se non ora, quando?” è in realtà la chiusura del ritornello di una preghiera ebraica, poi riadattata nel romanzo, che recita: “Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?”. Tale ritornello è un po’ il motto, il “grido di battaglia” dei personaggi del libro, partigiani ebrei che si riuniscono in bande, attraversano mezza Europa nascondendosi nelle foreste e, con pochissimi mezzi a disposizione, organizzano un piccolo esercito clandestino, tentando di restituire colpo su colpo a chi sta cercando di sterminarli.

Il “Se non ora quando” vuole certamente essere un inno alla speranza, però il romanzo presenta molti contenuti violenti e pessimistici; forse la sola opera di Levi in cui il pessimismo è così presente. E’ una storia di solitudini che tentano di incontrarsi, e spesso falliscono; di solidarietà rifiutate e alleanze respinte - «Venite con noi!», dicono i partigiani ai superstiti del lager che hanno appena liberato, ma questi non li seguono – dove la violenza sembra l’unico riscatto possibile.

Il condottiero Gedale tiene in una mano il mitra e nell’altra il suo violino, da cui non si separa mai, ultimo cimelio di un mondo che ormai non esiste più. Dice Gedale, in una frase che ho imparato a memoria nell’istante stesso in cui l’ho letta: «Credo in tre sole cose: alla vodka, alle donne e al parabellum. Una volta credevo anche alla ragione, ora non più».

I guerrieri di Levi sono goliardici e spietati, egoisti e dissacratori (magistrale la scena in cui, ubriachi, deridono le sacre scritture), combattono e, quando uccidono, ammettono di averlo fatto volentieri. L’unico personaggio che mantiene un barlume di umanità, l’unico a osare una storia d’amore, per questo malvisto dai compagni, perché «di donne ce ne sono poche e vanno messe in comune», il giovane Leonid, andrà volutamente incontro alla morte, lanciandosi da solo contro un intero plotone di SS.

E quando, alla fine, la speranza e l’unione sembrano dover trionfare, a guerra finalmente conclusa, quando dopo un’infinità di peripezie il gruppo arriva in una Milano liberata e stravolta, quando i guerrieri si guardano negli occhi e scoprono di voler restare insieme, ecco che la burocrazia dell’ufficio di assistenza rifiuta loro lo status di partigiani, e le loro strade devono separarsi. Il violino di Gedale si spezza, il condottiero diventa profugo, mentre, dall’altra parte del pianeta, la guerra sferra il suo ultimo, mortalissimo attacco.

Il “Se non ora quando” resta indivisibile dalle due frasi che lo precedono: soltanto io ci sarò per me, e questo è l’unico modo possibile.

E allora, su le mani, ma mi auguro vivamente che, dopo aver urlato lo slogan, a qualcuno venga in mente di leggere anche il libro.

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