Articolo scritto nella primavera del 2011
Penso
che in molti ricordino questa foto, risalente alla primavera del 2011. Ai tempi,
lessi in giro per il web un articolo che titolava “Se non ora… mai! Giù le mani
da Levi”. Ricordo di aver sorriso, non per l’articolo in sé, criticava il fatto
che si scendesse in piazza portando uno slogan per cui, secondo l’autore, si
creava un parallelismo ingiusto tra i partigiani antiberlusconiani e i
partigiani di Primo Levi. Sorrisi, perché quel “Giù le mani” era esattamente
ciò che avevo pensato quando vidi sbandierato nelle piazze il titolo
dell’opera che qualche anno fa mi ha fulminata, tanto da consacrarne l’autore
come punto di riferimento del cuore, per sempre. Non si tratta certo di un
romanzo tra i più conosciuti, e quando ho sentito sulla bocca di tutti qualcosa
che, nel suo significato intrinseco, apparteneva a me e a pochi altri,
istintivamente sono quasi saltata sulla sedia e ho pensato: «Ma che vogliono
questi? Giù le mani!».
Lasciando
da parte questi pensieri che sono un po’ egoistici e infantili, perché è vero
che le parole appartengono a chi le ha scritte, ma una volta lanciate sono di
tutti e ciascuno ne fa ciò che vuole, vorrei fare un modestissimo tentativo di
restituire la frase al suo contesto originario.
“Se
non ora, quando?” è in realtà la chiusura del ritornello di una preghiera
ebraica, poi riadattata nel romanzo, che recita: “Se non sono io per me, chi
sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?”. Tale ritornello è un
po’ il motto, il “grido di battaglia” dei personaggi del libro, partigiani
ebrei che si riuniscono in bande, attraversano mezza Europa nascondendosi nelle
foreste e, con pochissimi mezzi a disposizione, organizzano un piccolo esercito
clandestino, tentando di restituire colpo su colpo a chi sta cercando di
sterminarli.
Il
“Se non ora quando” vuole certamente essere un inno alla speranza, però il
romanzo presenta molti contenuti violenti e pessimistici; forse la sola opera
di Levi in cui il pessimismo è così presente. E’ una storia di solitudini che
tentano di incontrarsi, e spesso falliscono; di solidarietà rifiutate e
alleanze respinte - «Venite con noi!», dicono i partigiani ai superstiti del
lager che hanno appena liberato, ma questi non li seguono – dove la violenza
sembra l’unico riscatto possibile.
Il
condottiero Gedale tiene in una mano il mitra e nell’altra il suo violino, da
cui non si separa mai, ultimo cimelio di un mondo che ormai non esiste più.
Dice Gedale, in una frase che ho imparato a memoria nell’istante stesso in cui
l’ho letta: «Credo in tre sole cose: alla vodka, alle donne e al parabellum.
Una volta credevo anche alla ragione, ora non più».
I
guerrieri di Levi sono goliardici e spietati, egoisti e dissacratori
(magistrale la scena in cui, ubriachi, deridono le sacre scritture), combattono
e, quando uccidono, ammettono di averlo fatto volentieri. L’unico personaggio
che mantiene un barlume di umanità, l’unico a osare una storia d’amore, per
questo malvisto dai compagni, perché «di donne ce ne sono poche e vanno messe
in comune», il giovane Leonid, andrà volutamente incontro alla morte,
lanciandosi da solo contro un intero plotone di SS.
E
quando, alla fine, la speranza e l’unione sembrano dover trionfare, a guerra
finalmente conclusa, quando dopo un’infinità di peripezie il gruppo arriva in
una Milano liberata e stravolta, quando i guerrieri si guardano negli occhi e
scoprono di voler restare insieme, ecco che la burocrazia dell’ufficio di
assistenza rifiuta loro lo status di partigiani, e le loro strade devono
separarsi. Il violino di Gedale si spezza, il condottiero diventa profugo,
mentre, dall’altra parte del pianeta, la guerra sferra il suo ultimo,
mortalissimo attacco.
Il
“Se non ora quando” resta indivisibile dalle due frasi che lo precedono:
soltanto io ci sarò per me, e questo è l’unico modo possibile.
E
allora, su le mani, ma mi auguro vivamente che, dopo aver urlato lo slogan, a
qualcuno venga in mente di leggere anche il libro.
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